giovedì 5 marzo 2015

Dirigenti allo specchio: si vedono generosi e aperti ma per i dipendenti non è vero

UNOSTUDIO REALIZZATO DALL’UNIVERSITÀ BOCCONI HA MESSO A CONFRONTO QUASI 1500 TRA CAPI E SUBORDINATI RIVELANDO UNO SCENARIO BIPOLARE


Capi allo specchio? Se a giudicarli sono i dipendenti, ecco che il mondo si divide in due. Da un lato c’è come si vedono manager, dirigenti d’azienda e capoufficio: comprensivi, motivanti, consapevoli. «Siamo esigenti ma giusti», si promuovono (segretamente compiaciuti) tra sé e sé. Dall’altro come li percepiscono i sottoposti: autoritari, distaccati, pronti a spegnere gli entusiasmi. «Vorremmo un leader migliore, generoso, più aperto», protestano in coro. 




Una ricerca realizzata dall’Università Bocconi ha messo a confronto quasi 1500 tra capitani e subordinati rivelando uno scenario bipolare. Spiega Massimo Magni, del Dipartimento di Management e Tecnologia: «Nei momenti di turbolenza e di cambiamento come quello attuale c’è la necessità di assumere nuove prospettive. Sarebbe necessario che i collaboratori diventassero parte complementare del capo, partecipando ai processi decisionali per sviluppare idee che portino le aziende a raggiungere risultati di lungo periodo».
E invece no. «La ricerca mostra come i manager, schiacciati dagli obiettivi immediati, non riescono a sviluppare quest’energia dei collaboratori — spiega Magni — ma se lo stress può dare buoni risultati nel breve periodo (metaforicamente il capo è come un «pompiere » che trova una soluzione ad ogni problema) non crea le basi per il successo di lungo corso». Vediamo allora la schizofrenia evidenziata dalla Bocconi. Situazioni
di panico in azienda? Il 90% dei superiori pensa di motivare riuscendo a delegare e facendo empowermentverso il proprio team che, al contrario, solo nel 55% dei casi riconosce questo atteggiamento. E l’autonomia? L’80% dei leader è convinto di dare carta bianca, peccato che solo il 64% percepisca quest’indipendenza. E ancora: l’83% dei capi sostiene di avere consapevolezza sugli effetti che le proprie decisioni hanno sui sottoposti, ma solo il 59% la pensa così. 

Altra questione: quanti boss stimolano i collaboratori ad uscire dalla “comfort zone” del recinto di lavoro abituale? Il 90% si riconoscono questa sensibilità che è confermata dal 63% sottoposti. I capi sono infine generosi nel favorire le opportunità di carriera? L’85% ne è convinto. Peccato però che il 50% dei lavoratori abbia un parere opposto. «La responsabilità di questa situazione non è solo dei middle manager », spiega Magni, «spesso chi ha un ruolo di fascia media si trova schiacciato in una “trappola” poiché il top chiede risultati immediati di business, mentre il potenziale innovativo dei collaboratori (che può essere il motore di risultati più duraturi) non è considerato critico dall’organizzazione ». Siamo di fronte a un circolo vizioso della leadership, dunque. Consoliamoci: non siamo soli al mondo. Una ricerca effettuata da Kelly Services, attraverso interviste a 170 mila persone di 30 Paesi diversi, indica come solo il 38% dei lavoratori è soddisfatto del proprio manager. Quale può essere la soluzione? Paul Walsh, ceo della Diageo, ha finto di non essere più il capo per incoraggiare i suoi a prendere decisioni liberi dall’incubo burocratico. Alternative? Spiega Amelia Parente, direttore della selezione talent management di GlaxoSmithKline: «Bisogna che i leader sviluppino una cultura della “tolleranza dell’errore”, purtroppo in questi tempi di super eroi è un passaggio mentale difficile, ma solo così si spingono le persone ad uscire dalla comfort zone». E ancora. «Va spiegato che sviluppo non è solo carriera ma anche apprendimento ». Infine le aziende. Possono fare molto: «È utile misurare il valore dei capi su quanto sono stati bravi nel far crescere i collaboratori. GlaxoSmithKline punta a incentivare proprio il Develop Capability & Talent ». Qui sopra, Massimo Magni, curatore della ricerca della Bocconi

Nessun commento:

Posta un commento