mercoledì 20 aprile 2011

Le nuove frontiere della internazionalizzazione

Reti di imprese e importanti investimenti in comunicazione, logistica, sistemi di garanzia per la customer satisfaction e la creazione di valore: la competizione nei mercati internazionali si gioca oggi sull’acquisizione, trasferimento ed elaborazione della conoscenza e degli skills acquisiti nel tempo dalle aziende.

La stagione della delocalizzazione alla ricerca di bassi costi di produzione è tramontata da un pezzo. I global player e le aziende che si affacciano consapevolmente sui mercati globali avviano una internazionalizzazione ‘invisibile’, che non è caratterizzata solo da export e investimenti diretti all’estero, ma dal cambiamento di una prospettiva strategica e operativa che spinge le imprese ad “esserci per esserci”.
La ricerca di vantaggi competitivi non è determinata solo da fattori di costo, ma dalla necessità di seguire al meglio la clientela (following the customers), di posizionare il marchio in nuovi paesi del mondo (gestione della marca a livello policentrico o globale). La delocalizzazione (resources seeking) come semplice ricerca di risorse umane e materiali, come deindustrializzazione non può essere l’unico fattore motivante al processo di internazionalizzazione: le imprese che si pongono come traguardo la soddisfazione dei bisogni della clientela, la capacità di “curarla” da vicino attivano “strategic asset seeking” che richiedono operazioni di cooperazione transazionale a monte e a valle con i fornitori e i distributori, al fine di essere davvero presenti nel mondo.
La filosofia è quella di “esserci per esserci”. Non solo per risparmiare.
Andrea Celli - proprietario di J. Ashfield - precisa: “Noi non produciamo capi in Bangladesh, ma siamo produttori ed esportatori in tanti paesi nel mondo (sempre nel rispetto delle leggi locali), tra cui Germania, Inghilterra, Irlanda, Scozia, Stati Uniti, Messico, Bulgaria, Romania, Olanda, Belgio, Austria, Svizzera, India, Cina. Non capisco dove possa essere il problema nell’avere diverse aree di import produttivo”.
Una chiara modifica, dunque, della geografia produttiva che è funzionale a seguire più da vicino i diversi mercati e i segmenti che esprimono differenti bisogni. “I nostri capi riportano tutti in modo trasparente l’etichettatura di origine (in modo che il cliente sappia sempre dove questi sono stati prodotti). Un’azienda che vende nel mercato globale è naturale che produca in varie parti del mondo: il brand è italiano perchè design e qualità sono italiani”.
L’attenzione, e quindi parte della comunicazione, devono essere improntate ad una trasparenza dei processi industriali, su tutta la filiera: una nuova filosofia industriale che punta alla rete e alla qualità in tutte le fasi della lavorazione, che siano in Italia o altrove.
Il  cambio di paradigma è lampante e coinvolge direttamente la politica.
Non si può avere “paura” delle produzioni internazionalizzate e la questione non può avere radici ideologiche: “il marchio made in Italy deve essere sinonimo di qualità e questa qualità va controllata e richiesta in tutte le fasi”, come raccontava Marisa Pavanò, responsabile della produzione di un’azienda attiva nella moda italiana che produce in Slovacchia.




ABEA FORMAZIONE